martedì 28 ottobre 2014

Wallis Bird
(Trieste, 26 ottobre 2014 Etnoblog)


The more you hold on to me,
The less I'm yours to keep
The more you hold on to me
I will try not to leave...

Il fragilissimo istante in cui torni alla realtà, dopo un'intensa e penetrante ballata. Hai la pelle d'oca, l'ultimo accordo risuona flebile, appeso all'elettricità di un silenzio assoluto. Non vuoi lasciare la presa ma sei consapevole che tra un attimo gli applausi faranno svanire l'incantesimo, e il presente si tramuterà in passato.
Non sei veramente sicuro se si tratti di sogno o realtà. Allora ti volti e capisci dallo sguardo dei tuoi amici di non essere solo. Hai la pelle d'oca e un leggero senso di dolce nostalgia, ma ti senti vivo.

La canzone si intitola “In Dictum”, ed è così che mi sentivo a fine concerto. Quel senso di benessere, quando sei preso alla sprovvista da qualcosa di mozzafiato, come vedere il panorama di Parigi dalla collina di Montmatre per la prima volta ed esclamare “Holy shit!”. Ecco, il concerto di Wallis Bird era una sensazione “Holy shit!”, gli assenti hanno avuto torto. 

 

Irlandese di nascita ma tedesca d'adozione, quattro gli album all'attivo, ha già calcato il palco dell'Etnoblog in versione “One band girl” due anni fa (qui l'intera performance). Questa sera l'intensità era ancora maggiore, grazie ad una setlist più calibrata e al ponderato utilizzo di una loop station e di un microfono puntato al pavimento che amplificava il (sempre perfetto) ritmo che teneva con i piedi.
Le canzoni funzionano meglio con questi arrangiamenti scarni che su disco o full band. Un equilibrio perfetto tra energia femminile allo stato primordiale e sensibilità cristallina, tra canzoni suonate alla velocità della luce e momenti meditativi. Una performance sensuale, fatta di sudore, corde spezzate, continui scambi di battute con il pubblico (a dire il vero sparuto ma corretto e ricettivo). “I'm gonna talk slow, and play fast” dice all'inizio, imbraccia la chitarra (che suona al contrario) e attacca con l'ipnotica “Girls”. Impossibile stare fermi.

Holy shit !

sabato 18 ottobre 2014

Swans
(Ljubljana, October 16 2014) ENG


Imagine yourself standing in the middle of an urban mantra, a ceremony for a lucky few that has already lasted for more than two hours, and look around to check if someone has already gone crazy, something that could happen to you, from one moment to another .. 

On our way to Ljubljana, neither I nor the three buddies with whom I have ventured had no idea of what we would come across. All we knew was some brief biographical note and a few clips on youtube (which incidentally does not even give an idea of what we actually went to see). Formed in the 80s, the Swans began their career in the wake of a hardcore-punk era, producing seminal records. They broke up at some point in the 90s and then reunited in 2010. Since then they have released a handful of albums, the last of which "To Be Kind" is acclaimed as one of the albums of the year by publications such as Pitchfork and related. Full stop. We really knew nothing more ..

Wrapped in total darkness, at ten to ten time begins to expand, carrying us to an unreal dimension. Incalculable the introduction of the gongs, the arrival of the drums, the noise of the slide guitar, the constant pulsation of the bass and distortions of the two guitars. And this is just the beginning. What is certain is the way in which, after a slow dynamics such as inexorable, a sudden and extremely loud C chord strikes us without warning like a punch in the face, sucking the audience into a deep tunnel, face to face with their own obsessions, in a downward spiral without end. Three possibilities; escape, face the abyss and come out purified, or be overcome and crushed. A three-hour ceremony, for a selected few, with a cathartic finale that takes no prisoners.



The Six Swans then, look like characters drawn straight out of a comic book; the frontman Michael Gira, fifty, drag the scene with a relentless impetuosity. The guitarist Norman Westberg, tall and slim, sparse white hair, and long beard shoots loads and loads of noise as if the feedback came directly from his body, spitting electric shock. Not to be outdone Christoph Hahn, Texas mustache, red shirt, boots and grease, and a steel-guitar that I never thought it could produce similar sounds. The rhythm section formed by percussionist Thor Harris, drummer Phil Puleo and bassist Christopher Pravdica are shaking the floor.




A constant exchange of energy, an urban mantra, as I said at the beginning, from which only way after the ending you can understand the profound impact on your skin. As I said to Michael Gira at the end of the concert "I'll surely not be the same, after all this ..".


venerdì 17 ottobre 2014

Swans
(Ljubljana, 16 ottobre 2014 Kino Šiška)

 
Immaginate di trovarvi nel bel mezzo di un mantra urbano, una cerimonia per pochi eletti che sta durando da più di due ore, e di guardarvi attorno per controllare se qualcuno è già impazzito, cosa che potrebbe succedere anche a voi, da un momento all'altro..



Sull' autostrada verso Lubiana, né io né i tre con cui mi sono avventurato avevamo la minima idea di ciò in cui ci saremmo imbattuti, se non per qualche brevissima nota biografica o qualche spezzone su youtube (che per inciso non danno un'idea nemmeno sommaria di quello che realmente andavamo a vedere). Formatisi negli anni '80, gli Swans cominciarono la carriera sulla scia di un certo hardcore-punk sfornando dischi seminali. Si sciolsero a un certo punto degli anni '90 per poi riunirsi nel 2010. Da quel momento hanno pubblicato una manciata di album, l'ultimo dei quali “To Be Kind” è acclamato come uno dei dischi dell'anno da testate come Pitchfork e affini. Full stop. Nulla sapevamo più..



Avvolti da un'oscurità totale, dalle dieci meno dieci il tempo si dilata, assume una dimensione irreale. Incalcolabile l'introduzione di gong, l'arrivo della batteria, i rumori della slide-guitar, la pulsazione costante del basso e le distorsioni delle due chitarre. E siamo solo all'inizio. Quello che è certo è il modo in cui, dopo una dinamica tanto lenta quanto inesorabile, un FORTISSIMO e infinito accordo di Do ci colpisce senza preavviso come un pugno in pieno volto, risucchiando gli ascoltatori inerti in un profondo tunnel, a faccia a faccia con le proprie ossessioni, in una spirale a caduta libera senza fine. Tre le possibilità; scappare, affrontare l'abisso e uscirne purificati, o farsi sormontare e restarne schiacciati. Una cerimonia di tre ore, per pochi eletti, con un finale catartico che non fa prigionieri.



I sei Swans poi, sembrano usciti da un fumetto, il frontman Micheal Gira, cinquant'anni, trascina la scena con un'irruenza implacabile. Il chitarrista Norman Westberg, alto e asciutto, capelli bianchi radi e lunga barba spara vagonate di rumore come se il feedback uscisse direttamente dal suo corpo sputando scariche elettriche. Non è da meno Christoph Hahn, baffi alla texana, camicia rossa, stivali e brillantina, e una steel-guitar che non avrei mai pensato riuscisse a produrre simili suoni. La sezione ritmica costituita dal percussionista Thor Harris, il batterista Phil Puleo e il bassista Christopher Pravdica fanno tremare il pavimento.





Uno scambio costante di energia, un mantra urbano, come detto all'inizio, da cui solo dopo esserne usciti vincitori si può capire il profondo impatto sulla propria pelle. Come ho detto a Michael Gira a fine concerto “Dopo aver vissuto tutto questo, non sarò più lo stesso..”. 

 

mercoledì 15 ottobre 2014

Mick Turner, Don't Tell The Driver

 
Mick Turner è un artista, nel senso che oltre ad essere un musicista sopraffino e sottovalutato dai più (me incluso prima dell'incontro ravvicinato in un circolo Arci di Udine un mese fa) realizza quadri di fine fattura. Sue sono le copertine di tutti gli album dei Dirty Three, gruppo in cui affianca gli inossidabili Warren Ellis (violinsta/polistrumentista braccio destro di Nick Cave nei Bad Seeds) e Jim White (batterista tra i più gettonati sulla scena). Se ancora non li conoscete, ascoltate “Ocean Songs”, un classico..

Mick, di carattere schivo, passa un po' inosservato nelle dinamiche del terzetto, rea forse l'ingombranza scenica, a dir poco strabordante, degli altri due. Musicalmente poi (parafrasando un amico) spesso la sua chitarra si limita ad “accordi di risacca”, di semplice riempimento, che non rendono chiaro il suo ruolo: valore aggiunto o semplice comprimario ?

C'è voluto il concerto udinese per sfatare ogni dubbio, una vera sorpresa; mai e poi mai mi sarei aspettato una simile intensità. In due sul palco, chitarra e batteria. Effeti loop che aggiugevano strati su strati di pennellate sonore. Melodie ipnotiche in cui sembrava di cavalcare attraverso le praterie sterminate raffigurate in molte sue tele. Fin dalle prime note riaffiorava una sensazione primordiale, liberatoria, una porta verso la radice di un amore intenso, stregante.

L'ultimo suo disco si intitola “Don't Tell The Driver”, è del 2013, la versione in vinile è divisa in due dischi, quattro lati. Il secondo è semplicemente perfetto, una delle cose migliori che abbia ascoltato da parecchio tempo. “Don't Tell The Driver”/“ Gone Dreaming”. Vi assicuro che, se ascoltato a tarda notte, ad una luce fioca vi sembrerà davvero di sognare ad occhi aperti, inoltrandovi, un passo alla volta, nella pura materia del sogno.. Don't tell the driver we're headed home... I'm gone, dreaming.... 

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martedì 4 marzo 2014

Anna Calvi
(Ljubljana, 27 febbraio 2014 Kino Šiška)


Il Kino Šiška è gremito, molti i fans giovanissimi. Vicino a me, tra le prime file, un manipolo di ragazze, nemmeno ventenni, canteranno tutte le canzoni, senza perdere una parola. Un segnale rassicurante se considerato che non si tratta dell'ennesima bella faccia inglese lanciata dal music business, ma di una musicista di razza con due (ottimi) album all'attivo.

La scenografia, piuttosto spoglia, è costituita da un telone raffigurante un prato sovrastato da nuvole basse. Candele e crisantemi, poi, attorniano le casse alla base del palco.
Anna entra timidamente in scena poco dopo le 22, è di un'eleganza sofisticata; indossa pantaloni a vita alta, una camicetta nera e tacchi alti. Non è un caso che sia una delle musiciste più ricercate da alcuni degli stilisti più famosi al mondo. Osserva per qualche istante il pubblico, sorride. Dietro alla soddisfazione per una calorosa accoglienza nasconde un'aria sardonica di sfida. Imbraccia la Telecaster. 

 

Suzanne & I” apre le danze e già dal primo accordo la metamorfosi è evidente: la giovane donna introversa di poco prima si tramuta in un'artista passionale e assolutamente sicura di sé. Segue “Eliza” e tutti sono già stregati. Una canzone che parla di quando ci si sente intrappolati in una situazione e, per evadere, si immagina di essere qualcun altro “If only I could be you Eliza..”.
L'onirica “Sing To Me”, ispirata ad una delle sue artiste favorite, Maria Callas, ci culla mescolandosi dolcemente con le nuvole in sottofondo, portandoci, sognanti, verso distese sterminate.

È accompagnata da altri tre musicisti: un batterista, un tastierista (elemento aggiunto in questo tour) e la polistrumentista Mally Harpaz, alternata tra armonium, basso, chitarra e percussioni. Gli occhi saranno incollati esclusivamente su di lei, la protagonista assoluta: Anna Calvi. Una presenza scenica magnetica e una voce così potente da chiedersi come faccia ad uscire da un corpo tanto minuto.
Una delle caratteristiche che più colpiscono sono le incredibili dinamiche. Si passa da momenti sussurrati a momenti abrasivi, da ninnananne ad esplosioni di chitarre psichedeliche e stridenti, sorrette da un cantato a volte bisbigliato, a volte operistico. In particolare “Carry Me Over”, tratta dall'ultimo album “One Breath” è un crescendo che sfocia in un assolo al fulmicotone sorretto da melodie ipnotiche.

Simile è il caso dell'intensa “Love Of My Life” che ricorda, in qualche modo, le sfuriate della sua connazionale PJ Harvey.
La canzone che forse, più di tutte, mi ha fatto innamorare si intitola “Love Won't Be Leaving”, saggiamente inserita a fine set. Perfetta sintesi di tutte le sue composizioni ed esauriente dimostrazione del suo talento sia canoro che chitarristico. Un pezzo che mi riporta indietro con la memoria di una decina d'anni, quando ascoltai per la prima volta Jeff Buckley rimanendone ammaliato.

Quattro le covers previste in scaletta: dal passato (remoto) al presente, da “Jezebel” di Frankie Laine a una versione languida e avvolgente di “Wolf Like Me” dei Tv On The Radio, passando per “Surrender” di Elvis e “Fire” di Springsteen. Rivisitazioni tanto personali quanto convinceti che confermano la sua bravura sia compositiva che interpretativa.

Di poche parole, dopo un'ora e quaranta di musica, rientra sul palco da sola, perfettamente a suo agio, sorride, chiede se ci sono richieste “vi lascerò con una ninnananna” e intona "No More Words".

In un'intervista una volta ha detto: “Sono sempre stata attratta dall'idea di guarire le persone con la mia voce.” Se questo era l'intento.. ci è senz'altro riuscita.


Setlist:

Suzanne & I
Eliza
Sing To Me
Suddenly
Cry
Surrender 
Rider To The Sea
First We Kiss
I'll Be Your Man
Love Of My Life
Piece By Piece
Carry Me Over
Bleed Into Me
Fire
Wolf Like Me
Desire
Love Won't Be Leaving

A Kiss To Your Twin
Blackout
Jezebel

No More Words

sabato 1 marzo 2014

Savages
(Bologna, 26 febbraio 2014 Locomotiv Club)


SAVAGES is not trying to give you something you didn’t have already, it is calling within yourself something you buried ages ago, it is an attempt to reveal and reconnect your PHYSICAL and EMOTIONAL self and give you the urge to experience your life differently, your girlfriends, your husbands, your jobs, your erotic life and the place music occupies in your life. Because we must teach ourselves new ways of POSITIVE MANIPULATIONS, music and words are aiming to strike like lightning, like a punch in the face, a determination to understand the WILL and DESIRES of the self.
This album is to be played loud in the foreground.
SAVAGES MANIFESTO #2

Le Savages non stanno cercando di darti qualcosa di nuovo, cercano di risvegliare dentro di te qualcosa che hai seppellito molto tempo fa. Sono un tentativo di riconnetterti con te stesso e le tue emozioni, ridandoti la voglia di sperimentare la vita in un modo diverso. Di riconsiderare il ruolo della tua ragazza, di tuo marito, del tuo lavoro, della tua intimità e del posto che la musica occupa nella tua quotidianità. Perchè dobbiamo insegnare a noi stessi nuovi modi di “manipolazione positiva”, la nostra musica e le parole mirano a colpire come un fulmine, come un pugno in faccia, con una determinazione a capire la volontà e il desiderio in noi stessi. Quest'album deve essere suonato a volume alto, e ascoltato con attenzione.

Quattro donne londinesi, vestite di nero, molto incazzate ed estremamente determinate.
Sonorità cupe e dirompenti che richiamano al post-punk anni '80, genere che in molti hanno cercato di riproporre, ma pochi sono riusciti a rivitalizzare. Non è un caso che l'età media, stasera, si aggira tra i trenta e quarant'anni.
La ricerca di qualcosa di essenziale è già chiara all'ingresso del club, dove un cartello incita il pubblico a non scattare fotografie e video con il cellulare, per immergersi completamente nell'esperienza.

A note from Savages
Our goal is to descover better ways of living and experiencing music.

We believe that the use of phones to film and take pictures during a gig prevents all of us from totally immersing ourselves.

Let's make this evening special

Silence your phones

Riconnettersi con la musica in maniera viscerale e allo stesso tempo riappropriarsi del silenzio, questo l'intento. Lasciare da parte inutili orpelli, figli di un'età in cui stiamo perdendo di vista l'essenziale e non riusciamo più a concertrarci, disturabati da un rumore costante. Non a caso il titolo dell'album d'esordio è proprio “Silence Yourself”. La loro performance, poi, sarà la perfetta estensione di tutto questo. Sulla copertina del disco si legge:
Una volta il mondo era silente, ora ci sono troppe voci. E il rumore è una distrazione costante. Si moltiplica, intesifica, svierà la tua attenzione verso qualcosa di più conveniente, e si dimenticherà di dirti chi sei...” (Manifesto #1)

Alle 23 entrano le quattro Savages. Il palco è basso e privo di transenna, meno di un metro mi distanzia da loro. Jenny Beth, frontman carismatica, capelli corti e tacchi alti, squadra il pubblico con occhi tenebrosi.
La bassista, Ayse Hassan, è schierata a destra, davanti a me, terrà in piedi la sezioni ritmica con perizia impeccabile, ad occhi chiusi per tutto il concerto.
A sinistra la chitarrista Gemma Thompson, lo sguardo nascosto da una lunga frangia, imbraccia la fender azzurra e comincia a dipingere un'inquietante foresta sonora. È il feedback di I Am Here a dare l'avvio al set. Il ritmo martellante ed ipnotico di Fay Milton ci fa entrare subito nell'atmosfera. “I am here.. No more fear.. No more dark shadows..”



Segue “una canzone dedicata a tutte le ragazze snelle e carine. E ai ragazzi” si tratta del (già classico) City's Full. “So many skinny pretty girls around.. Honestly, I just wanna go down.. Try to pretend there's nothing wild..Why do you treat so bad..” Si sprigiona energia femminile allo stato puro, in un crescendo folgorante. il pubblico apprezza e comincia a scaldarsi. Jenny tiene il ritmo sferzando pugni nell'aria, a canzone conclusa commenterà: “mi piace la gente che balla, è la cosa che preferisco” e Ayse parte con il basso di Shut up, mi viene in mente lo scorcio di conversazione tra Gena Rowlands e Joan Blondel nel film “Opening Night” di Cassavettes, inserito come introduzione dell'album, in particolare la frase: I'm trying to be patient..



Su Waiting for a sign penso a come debbano essersi sentiti spiazzati i primi spettatori dei Joy Division o di Siouxsie And The Banshees. Note dilatate e stridenti, sorrette da un basso compulsivo.
She Will sembra uscita direttamente dalla penna di Ian Curtis. Jenny impugna il microfono, si muove per il palco. È già una frontman sicura ma ha ancora grosse potenzialità.

In scaletta c'è spazio per qualche inedito: dall'urlata I Need Something New a Flying to Berlin, inclusa nell'EP del singolo “Husbands” ed ispirata a quel momento in cui “Pensi che l'aereo su cui stai viaggiando debba schiantarsi al suolo, e hai davvero paura di morire”.
Dopo No Face Jenny commenta “C'è un gran silezio per una canzone così rumorosa" e inizia Hit Me, un testo ispirato ad un documentario sulla pornostar “Bella Donna”, che analizza la ricerca di piacere da esperienze estreme.

Gran finale con  Husbands e Fuckers; la prima è uno sfogo di una donna esasperata da un rapporto coniugale soffocante, mentre la seconda viene presentata così: "Un amico una mattina ha lasciato un biglietto sul frigorifero con scritto "Don't let the fuckers get you down" e ho cominciato a pensare che forse, prima di pensare di avere io un problema, ero circondata da teste di cazzo. Questa canzone è dedicata a tutti quelli che stanno passando un brutto perido, si chiama "Fuckers"
Un lungo mantra di dieci minuti con una batteria tribale, in cui il cantato ripete ossessivamente: “Don't let fuckers get you down.. Don't let the fuckers get you down”.

Dopo un'ora e pochi minuti si chiude il sipario, nessun bis previsto ma poco importa, non capita tutti i giorni di venir investiti da un scarica di energia femminile tanto strabordante, speriamo ci sia un degno seguito a tutto questo.

Video:
Husbands: https://www.youtube.com/watch?v=nHw9_C_58tY
She Will: https://www.youtube.com/watch?v=giHD0OHl9xo


giovedì 13 febbraio 2014

Bombino
(Trieste, 12 febbraio 2014 Teatro Miela)


Dopo lunghi giorni di pioggia, il cielo di Trieste, questa sera, è stellato. La luna splende e soffia una leggera brezza. Nulla accade per caso. Il teatro Miela, infatti, si trasformerà, per un paio d'ore, nella piazza di Agadez, città del Niger, luogo d'origine del giovane Omara Moctar, in arte Bombino. Stiamo per intraprendere una carovana desertica, cullati da un ritmo ipnotico sferzato da una chitarra nomade.

La collaborazione con Dan Auberbach, frontman dei Black Keys e produttore dell'album "Nomad", l'hanno proiettato all'attenzione di un pubblico internazionale.



L'atmosfera è vibrante, il teatro gremito da un pubblico eterogeneo di tutte le età. Sono le 21 e 45, è tempo di dare inizio alle danze. Entra Bombino, vestito di verde; calza delle infradito ed è cinto dall'immancabile tagelmust, il lungo velo bianco tipico della sua cultura. Imbraccia una chitarra acustica e inizia a cullarci con i suoi lunghi mantra su due accordi.

È accompagnato da basso e percussioni; una sezione ritmica tribale da cui è impossibile non farsi catturare.




La prima parte è una sorta di trascinante “Unplugged Tuareg Blues”, gli animi cominciano a scaldarsi.

Si sentono la sabbia, l'acqua, i cieli sterminati. Si sente la ricerca di libertà e lo spirito di ribellione. Ribellione verso un governo opprimente e violento che, nell'epoca in cui Moctar cominciò a suonare, mise la chitarra tuareg fuori legge. È difficile, per noi occidentali, capire cosa significhi suonare per ribellarsi al sistema. Sembra addirittura che due suoi compagni siano stati giustiziati dall'esercito proprio per questo motivo. Se si è disposti a seguirlo, Bombino ti fa capire esattamente di cosa si tratta. In un epoca in cui i gusti sono dettati esclusivamente dal mercato, sonorità e personaggi così autentici ti fanno rimettere in contatto con un amore viscerale, con l'origine per una passione cristallina, per la musica e per la libertà.



È quando imbraccia la sua Fender che la serata prende veramente quota. Lunghe jam trascinanti con continui cambi di ritmo. Si passa dal Desert Blues, al Reggae, fino a punte Rock. Un manipolo di spettatori sul lato sinistro da l'avvio ad un sabba inarrestabile su un ritmo ipnotico, da seguire ad occhi chiusi mentre la band ci da dentro alla grande, colpita da tanta positiva accoglienza.

In quattro sul palco: bassista a sinistra, chitarra ritmica a destra e batterista sul fondo.



Non sono riuscito a riconoscere molte canzoni, forse tre o quattro, il cui Intro è particolarmente orecchiabile. Molti i pezzi tratti da “Agadez”, disco del 2011 che l'ha fatto uscire dai confini del Sahara.

Tratti da “Nomad” ricordo una strepitosa “Her Tenere” (In The Desert) e un'inarrestabile “Imuhar” (Freeman) inno all'unione del suo popolo nomade, contro le avversità del presente.

Leggendo la traduzione dei suoi testi (cantati in tuareg) si capiscono i retroscena di una cultura da sempre affascinante. Bisogni puri, scevri dalla retorica consumista occidentale. Si parla di amicizia, acqua, pazienza, amore, dubbio. Il tutto su un onnipresente sfondo desertico di cui non si vede la fine.



In tanti concerti visti, poche volte mi sono imbattuto in artisti di un'umiltà tanto genuina. Continui i ringraziamenti in francese sotto un timido sorriso soddisfatto.

A fine concerto si concede al pubblico per fotografie e autografi, mentre mi dedica una copia di “Nomad”, mi colpisce con la frase "Grande famille, Grande famille !" come a dire che per lui siamo tutti una grande famiglia.


Un esempio di umanità e un artista immenso, speriamo che l'attenzione mainstream non inquini il suo animo nomade.