mercoledì 27 novembre 2013

Nick Cave & The Bad Seeds
(Ljubljana, 25 novembre 2013 Hala Tivoli)


Nick Cave è un'artista che va visto a prescindere, una sicurezza per ogni appassionato di musica. In questo tour ho già avuto la fortuna di assistere allo show intimo di Londra, al Koko, lo scorso 3 novembre. Una performance davvero memorabile che aveva, tuttavia, qualcosa di ostentato. Probabilmente perché si trattava di un concerto organizzato apposta per farne un documentario, la sala era troppo illuminata e buona parte del pubblico faceva a gara per farsi filmare.

Questa sera, invece, ci attende un concerto autentico: niente telecamere, niente guestlist, niente luci ingombranti, niente briglie, niente sella. Solo sudore ed estasi.

Lasciato da parte il piglio auto-ironico del “Dig Lazarus Dig Tour” i Bad Seeds sembrano tornati allo smalto di vent'anni fa, merito forse della parentesi Grinderman. Viene da chiedersi cosa sarebbe successo se sul palco fossero rimasti Blixa Bargeld e Mick Harvey ma, la pulsante sezione ritmica di Martyn P. Casey e Jim Sclavunos, la tastiera di Conway Savage, unita al ritorno di Barry Adamson (dopo ventisei anni), al nuovo arrivato George Vjestica alla chitarra e al geniale tutto fare Warren Ellis, non li fanno rimpiangere. Nick, inoltre, si è rasato i baffi e ha saggiamente deciso di lasciare da parte la chitarra per dedicarsi, anima e corpo, alla voce e al pianoforte.

Sarà Shilpa Ray & Her Happy Hookers in versione “one band girl” ad aprire le danze, un piacevole massaggio alle orecchie prima della furia che non tarderà a scatenarsi sul palco dell'Hala Tivoli.

Sono schierato al lato destro, davanti alla postazione di Warren Ellis, nuovo direttore d'orchestra incontrastato dei Bad Seeds. Alle 21 tutto è pronto, si spengono le luci, partono le note di "We No Who U R", ed ecco Nick Cave, in completo di raso nero, ad indicarci minaccioso “We Know who you are, we know where you live, and we know there's no need to forgive” .

Dopo questa introduzione la band è perfettamente ambientata e il concerto comincia a decollare. “Jubilee Street”, Il viaggio al termine della notte ha inizio ed io perdo completamente il controllo e comincio a saltare ad occhi chiusi.. “The problem was, she had a little black book”.. e la dinamica sale. Sempre più in alto.. sempre più in alto.. fino alla catarsi.. “I'm transforming.. I'm vibrating.. I'm glowing.. I'm flying.. look at me know”.. Warren imbraccia il violino, ormai non mi trattengo più: “Go Warren Gooo!”.. mi sembra di spiccare il volo.

Siamo appena all'inizio, un temporale all'orizzonte. "Look Yonder! A big black cloud come !".. Nick è sopra la mia testa, come un predicatore impazzito, che lui stesso ha descritto nel suo primo romanzo “E l'asina vide l'angelo”.. “The king was born in Tupelo!” si appoggia alle mani dei presenti, si fonde con loro in un tutt'uno, e io sono lì, con loro, a sorreggerlo. Sembra di essere a "Tupelo", un paese dimenticato da Dio, nel bel mezzo della tempesta, indifesi e prossimi all'apocalisse. 

 

L'inquietante campana di “Red Right Hand” non da tregua.. Una passeggiata con il diavolo.. Nick gioca con il pubblico aggiungendo versi al testo, si rivolge in particolare ad un fan che lo filma con il cellura “You still got that shitty camera? He'll get you a new one”..

Si rallenta un po' con “Mermaids” tratta dall'ultimo “Push The Sky Away” e abbellita da un lungo assolo finale di Warren sulla sua chitarra personalizzata, a quattro corde.

 The Weeping song” regge anche senza la seconda voce di Blixa, complice un arrangiamento ben calibrato sulla melodia del violino.

A canzone finita, un fan particolarmente alticcio urla “I love you!”, Nick si avvicina “Behave yourself” comportati bene, gli dice, lo incita poi a fare silenzio e sussurra “I wanna tell you about a girl” neanche tempo di riprendere fiato e Bamm, il basso pulsante di Martyn P. Casey ci trascina nella stanza 29 di “From Her To Eternity” interpretata con una teatralità pari ai tempi de “Il cielo sopra Berlino”. Ad un certo punto Nick ci incita a fare spazio, sembra voglia calarsi tra noi. Non è così, a qualche fila di distanza vede una ragazza dai lunghi capelli neri, simile ad Anita Lane, e la incita ad avvicinarsi. Nick vuole dedicarle la strofa che da senso a tutta la canzone: “This desire to possess her is a wound, and its naggin at me like a shrew, but, ah know, that to possess her Is, therefore, not to desire her.” che si può tradurre: “Questo desiderio di possederla è un vero strazio, e mi tormenta come una megera. Ma io so bene che possederla significa non desiderarla”.

È il momento di rifiatare; incredibile come si riesca a passare da momenti di tale furia selvaggia a momenti di delicatezza cristallina. Rispetto al tour del 2008 le canzoni al pianoforte sono suonate in maniera molto più ispirata, è come se avessero acquisito una nuova linfa vitale. “West Country Girl”, “Into My Arms”, “People Ain't No Good” e “Love Letter”, quattro brani, tratti da “The Boatman's Call” e “No More Shall We Part”, due album che amo e conosco a memoria.

Higgs Bosom Blues” riporta il Nostro tra le prime file, è davvero in gran serata e ha un gran bisogno di sentire il pubblico sulla propria pelle. Sul verso “Can you fell my heartbeat ?” ci incita ad avvicinarci, poi si lascia cadere, facendosi sorreggere sul petto, dritto al cuore. Ad un bivio incontriamo Robert Johnson e Lucifero, arriviamo al Lorraine Motel di Memphis, fa caldo, uno sparo risuona come un ritmo spirituale, eccoci nella Savana, con Hannah Montana e un missionario con il vaiolo che sta salvando i selvaggi con il suo Higgs Boson Blues mentre Miley Cirus fluttua in una piscina a Toluca Lake. È così, il testo tradotto in realtà.



È il condannato a morte del classico “Mercy Seat” a continuare la storia, la sedia elettrica lo attende, il trono della misericordia. Anche se non vuole ammetterlo sappiamo già tutti che è lui il colpevole. Con gli occhi iniettati di sangue Nick si immedesima nel personaggio, implorandoci di credergli.

Si passa ad un altra storia di truci omicidi con “Stagger Lee” da “Murder Ballads”, e il dialogo con il pubblico viene portato all'esasperazione. Siamo dentro al saloon “the bucket of blood” dove, quel maledetto figlio di puttana, Stag, li uccide tutti fino all'ultimo. Quando la carneficina sembra finita entra il Diavolo in persona ma Stag non ha pietà, e lo riempie di piombo.

Il set si conclude sulle note rarefatte di “Push The Sky Away”: anche se alcuni dicono che è solo rock'n'roll, arriva dritto alla nostra anima. E dobbiamo continuare a spingere, spingere via il cielo, senza arrenderci.

Ma non è finita; si ricomincia con la ballata “God is in the house”, un'altra delle mie favorite. Pubblico eccellente, tutti in religioso silenzio, non vola una mosca, nessuno urla con voce sommessa hallelujah. Si sentono solo note cristalline ed un'interpretazione sussurrata, da brivido.

Deanna” tradisce forse un po' di stanchezza ma, dopo quasi due ore di performance selvaggia, lo si può perdonare.

Le sorprese non sono finite. Qualche indicazione alla band e Nick dedica “Stranger Than Kindness” ad una fan che lo sta seguendo in tour.

La strada è stata lunga e impervia ma, per raggiungere la totale epurazione dei sensi, bisogna raccogliere le ultime energie e intonare “Papa won't leave you, Henry”, papà non ti lascerà Henry, papà non ti lascerà ragazzo, quindi non c'è bisogno di piangere.

Salire sul palco significa sciogiere le briglie, gettare la sella ed esplodere in una catarsi di pura e totale emozione. Ecco di cosa si tratta; Liberarsi, Abbandonarsi, Purificarsi. L'epurazione dei sensi.
N.Cave

NOTA: "Wide Lovely Eyes" non è stata eseguita. I bis suonati: "God Is In The House", "Deanna", "Stranger Then Kindness" e "Papa Won't Leave You Henry"




lunedì 25 novembre 2013

Mark Lanegan
(Mestre, 18 novembre 2013 Teatro Corso)


Mark Lanegan è uno degli artisti più prolifici degli ultimi tempi. L'anno scorso ha dato alle stampe “Blues Funeral” (primo lavoro a nome Mark Lanegan Band in otto anni) a cui è seguito un lungo tour, visto nelle tappe di Bologna e Lubiana. Ricordo il chitarrista che l'accompagnava, Steven Janssens, un suono e un gusto negli arrangiamenti non indifferente.

Ne fa seguito la colonna sonora di “Lawless”, diretta da Nick Cave e Warren Ellis, in cui presta la sua inconfondibile voce. La nuova linfa creativa viene dalla collaborazione con l'inglese polistrumentista Duke Garwood con cui incide “Black Pudding” lasciando da parte certe sonorità elettroniche per tornare ad atmosfere desolanti e rarefatte. Poco dopo si cimenta in un album di covers, “Imitations”, in cui trovano spazio rivisitazioni di brani più o meno noti di artisti del calibro di Frank Sinatra, Nick Cave, John Cale e Neil Sedaka, solo per citarne alcuni.
Forte di questi nuovi lavori torna in tour accompagnato da cinque elementi: chitarra, basso, sax tenore, violino e violoncello. Un'edizione molto intima, da teatro; una vera e propria messa rock.

Mestre, Teatro Corso gremito, tutti seduti in religioso silenzio, avvolti dal buio, poche luci fioche sul palco. Sarà Duke Garwood ad aprire la serata; solo alla chitarra suona accompagnamenti minimali sussurrando melodie ipnotiche. Come un Caronte ci traghetta verso le profondità che ci attendono e non tarderanno a catturarci. L'atmosfera è creata, siamo pronti a partire cullati da atmosfere desertiche e una voce al gusto di whiskey. Soli.

Il viaggio comincia sulle note di When you're number isn't up, brano d'apertura di Bubblegum.
La voce bassa di Mark e la sua presenza magnetica ci trascinano sinuosamente verso gli abissi dell'anima.



Segue il traditional The Cherry Tree Carol registrato nell'Ep natalizio “Dark Mark Does Christmas”, canzoni noir ben lontane dai gingle patinati alla Mariah Carey.
One Way Street continua sulla scia, in una spirale sempre più profonda. Si passa poi a The Gravedigger's Song, uno dei pezzi più movimentati della serata, convincente anche senza batteria.

Ma è con Phantasmagoria Blues che si arriva definitivamente agli inferi, nel girone degli amori infranti. Da ascoltare a capo chino e occhi chiusi, mentre i brividi scendono lungo la schiena. L'aggiunta degli archi perfettamente mescolati al sassofono la rendono ancora più intensa, e poi la sua voce fa il resto.

A questo punto non ci resta che farci prendere per mano ed esplorare il paesaggio desertico di “Black Pudding”, in cinque canzoni. Prendete un pezzo come Mescalito, immaginate Harry Stanton mentre cammina inebetito e senza meta all'inizio di “Paris, Texas” e capirete cosa intendo. Lì la musica era suonata da Ry Cooder ma il paragone è senz'altro azzeccato.

L'ultima parte è costituita dalle covers di Imitations, ben due tratte dalla penna dei Sinatra: Pretty Colors di Frank e You only Live Twice di Nancy. C'è anche spazio per un tributo a Lou Reed in un'ispirata versione di “Satellite of love” (una delle migliori che abbia mai sentito).

Mark Lanegan non recita una parte, è un personaggio tormento ed autentico, lo si percepisce sulla pelle. Ne è riprova il modo in cui si abbandona su una sedia, in stato di trance, durante l'assolo di Halo of ashes, classico degli “Screaming Trees” e meta finale del viaggio, eseguito in due, con il solo accompagnamento del chitarrista. Risuonano le ultime note, si accendono le luci ed è tempo di tornare sulla terra.


Setlist:

When Your Number Isn't Up
The Cherry Tree Carol
One Way Street
The Gravedigger's Song
Phantasmagoria Blues
War Memorial
Mescalito
Cold Molly
Driver
Pentacostal
Pretty Colors
Mack The Knife
You Only Live Twice
Solitaire
Satellite Of Love
Mirrored
On Jesus' Program

Halo Of Ashes


venerdì 15 novembre 2013

Bob Dylan
(Padova, 8 novembre 2013 Teatro Geox)



Una volta, molto tempo fa, un amico, parlando di Bob Dylan, mi disse: “Se ti capita di vederlo dal vivo preparati ad assistere ad uno degli artisti più imprevedibili sulla piazza; può farti vedere le stelle in una serata piovosa, o, se non è in serata, annoiarti a morte e darti la sensazione di essere ad un concerto di polka”.

Bob Dylan resta Bob Dylan, e su questo non si discute. Con cinquant'anni di carriera e trentacinque album alle spalle è l'artista vivente più longevo in assoluto. Anche se la stragrande maggioranza di pubblico conosce solo i super classici degli anni '60, negli ultimi vent'anni ha sfornato dischi di grande spessore, Oh Mercy e Time Out Of Mind su tutti. Lo stesso Tempest, del 2011, non lascia nulla a desiderare, anzi! Pezzi come “Long and wasted years” o “Pay in Blood” sono la dimostrazione di un cuore selvaggio ancora pulsante, e a quell'età non è da tutti.

Dal vivo, come detto, è altra cosa; le potenzialità non mancano. Per farvi un idea, e sentire la faccia migliore della medaglia, vi consiglio di ascoltare Bootleg Series Vol.8, in cui oltre a b-sides ed outtakes (periodo 1989-2006) potete gustarvi numerose chicche live, non vi deluderà.
Condivido, tuttavia, l'impressione del mio amico; c'è anche un'altra faccia della medaglia: quella noiosa, quella in cui, da spettatore, senti le gambe pesanti e non vedi l'ora di tornare a casa e mettere sullo stereo “Oh Mercy” per consolarti.

Bob Dylan, ormai settantunenne, è così, imprevedibile; da quando ha deciso di abbandonare la chitarra elettrica per starsene ricurvo su una tastiera non sai cosa ti può capitare. Per non parlare del modo in cui ri-arrangia le canzoni; un po' per evitare un'operazione nostalga (molto apprezzabile) e un po' per sopperire alla sua estensione vocale sempre più ridotta, ma basta fare una rapida ricerca su Wikipedia per conoscerne tutti i dettagli.

Personalmente mi è capitato di vederlo dal vivo tre volte. La penultima, due anni fa, al Palasport di Padova, con Mark Knopfler di spalla, la migliore. Ricordo in particolare una versione molto dilatata di The Leeve's gonna break, con quel canto rauco e ossessivo, come un mantra “If it keep on rainin' the leeves' gonna break..” e poi l'effetto eco sul microfono in Ballad of a thin man.. Senza contare che in qualche pezzo imbracciava la chitarra, la band era carica e il volume sostenuto; insomma un Bob in versione “anche se piove chissenefrega”.

Lo scorso 8 novembre il così detto “Never ending tour” lo ha riportato a Padova, questa volta in una cornice più raccolta: il Teatro Geox.
Dopo l'esperienza positiva del 2011 decido di rivederlo; in più, da quando Lou Reed ci ha lasciato, ho avuto la conferma che, per queste leggende, ogni lasciata è persa.

Le ottime aspettative sono state ahimè deluse.. Il volume era basso e le sonorità rugginose che speravo, accantonate e sostituite da uno stile più folk/rock. Insomma un Bob in veste low-fi un po' noiosetto..

Delle diciassette canzoni presenti in scaletta ne salvo solo tre, tutte tratte dalle produzioni più recenti: “Love Sick” (da Time Out Of Mind, 1997), “After Midnight” e la già citata “Long and Wasted Years” (dall'ultimo “Tempest”). Dei pezzi più conosciuti (ma suonati in versioni quasi irriconoscibili), nessuno mi è rimasto impresso: né “Tangled up in blue” né “A Hard Rain's A-Gonna Fall” né tantomeno “Blowin' in the wind”. Non fraintendetemi, apprezzo il fatto che voglia reinventarsi continuamente, che le canzoni non siano state scritte sulla pietra (ecc. ecc.), ma questa volta era troppo anche per me.. Sarà per la prossima.




Set 1
Things have changed
She belongs to me
Beyond here lies nothin’
What good am I?
Waiting for you
Duquesne whistle
Pay in blood
Tangled up in blue
Love sick
Set 2
High water
Simple twist of fate
A hard rain’s a-gonna fall
Forgetful heart
Spirit on the water
Scarlet town
Soon after midnight
Long and wasted years
Encore
All along the watchtower
Blowin’ in the wind


martedì 12 novembre 2013

Pixies
(Milano, 4 novembre 2013 Alcatraz)


È il 4 novembre, sono a Londra, e nelle orecchie risuona ancora la voce cavernosa di Nick Cave; mi sembra di vederlo, a un palmo di mano, mentre sussurra “Can you feel my heart beat?” a una fan in lacrime. Per di più, la sua mano sfiora la mia e ho ancora il suo sudore addosso.

Londra, oggi, è particolarmente soleggiata, soffia una fredda brezza atlantica, e il mio viaggio non è ancora concluso. Stasera, infatti, sarò a Milano a sentire i Pixies.



Il viaggio è lungo: un'ora di pullman, due di volo e un'altra d'autobus ma, con un po' di pazienza, alle 19 sono davanti all'Alcatraz. Qui il clima è meno lusinghiero; piove forte e c'è un'umidità appiccicosa, ma poco importa, sono pronto alla scarica elettrica che, sono sicuro, mi travolgerà.



Lo show di stasera è Sold Out; l'Alcatraz, lo ricordo, ha una capienza di 5000 persone circa, incredibile come un gruppo praticamente resuscitato riesca ad avere un tale richiamo di pubblico. La band di Boston, cappeggiata da Frank Black, è nota ai più per essere stata un importante riferimento dei Nirvana. Da questo tour risulta orfana della bassista storica Kim Deal, sostituita dall'omonima Kim Shattuck che non farà rimpiangere la prima. Quattro album all'attivo, registrati tra il 1988 e il 1991, poi lo scioglimento e tanti anni di silenzio, fino al tour del 2004 che gli tenne impegnati quasi ininterrottamente fino al 2011 (ricordo il concerto del 2010 a Ferrara). Esordio capolavoro con “Surfer Rosa”, a cui seguì l'ottimo “Doolittle” e altri due, buoni ma nell'insieme meno graffianti: “Bossanova” e “Trompe Le Monde”.



Quest'anno sono di nuovo in tour con concerti “sold out” ovunque e un nuovo Ep (in vendita al merchandise) dal titolo molto stringato: “EP1”.



Il pubblico di stasera è molto variegato; dai quarantenni musicofili fans della prima ora, ai ragazzini modaioli richiamati dalla pubblicità di Radio Virgin o dalla colonna sonora di “Fight Club”, celebre film tratto dal romanzo omonimo in cui “Where is my mind ?” è inclusa nella mitica scena finale.

Alle 21.20 è tutto pronto, palco privo di ingombranti orpelli, la batteria di David Lovering riporta il l'inconfondibile logo Pixies, in sottofondo si scopre un muro di schermi stile televisori vintage. Le luci si spengono ed eccoli, i Pixies, invecchiati ma in forma.

Black Francis imbraccia la chitarra, partono le prime note di “Caribou”, tratta dall' Ep d'esordio “Come on Pilgrim”, e l'Alcatraz esplode in un boato.



Seguono, serratissime, “Monkey gone to heaven”, “Velouria” e “Havalina”. Il pubblico, dopo questo fulminante quartetto, è ormai caldo. Black passa alla chitarra acustica, “Vamos” una delle mie favorite, feedback disturbato di Joey Santiago, nello stile proto-grunge rumoroso che li ha resi celebri, e tutti a saltare come indemoniati, dalla prima all'ultima fila. Impressionante come una chitarra acustica, affiancata da un'elettrica, basso e batteria riescano a liberare tanta energia. Il basso potente di Kim Shuttuck (che, lo ripeto, non ha nulla da invidiare alla Deal) mi fa tremare il petto. Già alla sesta canzone è il turno di “Here comes your man”, senza tregua. Da segnalare che le setlists sono differenti ad ogni concerto, segno di una voglia di suonare ancora pulsante.



Sequenza per me particolarmente emozionante è stata la tripletta “Wave of mutilation” da (Doolittle), “Winterlong” (cover di Neil Young, che ho cantato a squarciagola) e “Cactus” (dal fulminante esordio “Surfer Rosa”). Saranno tre le covers: oltre alla sopracitata “Winterlong”, “Big new prinze” dei The Fall e “Head on” di Jesus and Mary Chain.



Dopo una riuscita miscela di brani ormai classici, il primo set si chiude con l'urlata “Debaser” ma non siamo ancora sazi. C'è ancora tempo per “Motorway to Roswell”, seconda delle due canzoni tratte da “Trompe le Monde” presenti in scaletta (la prima è “Distance equals Rate times time”), il b-side “In Heaven”, cantata da Black e attaccata alla nuova ballata “Andro Queen” e gran finale con il classico dei classici “Where is my mind?”.

 

Da notare che la scaletta originale prevedeva 31 canzoni a cui sono state aggiunte 4 vista la serata particolarmente riuscita. Ce ne fossero di resuscitati così.. Ma Lazzaro è uno, e noi ce lo teniamo stretto !

 

lunedì 11 novembre 2013

Nick Cave & The Bad Seeds
(Londra, 3 novembre 2013 Koko)

Tre novembre, concerto intimo ed esclusivo al Koko di Londra, filmato per il documentario “20.000 Days On Earth” incentrato sulla vita del cinquantaseienne Nick Cave e in uscita il prossimo anno. L’ingresso è riservato ai pochi fortunati vincitori di un ballottaggio a cui ci si poteva iscrivere online solo un mese prima: è andata bene e tra poco sarò tra il pubblico. Alle 19, dopo quattro ore di attesa, comincia a scendere una gelida pioggerellina inglese ed è a quel punto che si aprono le porte. Club molto elegante, palco raccolto, niente transenna, 900 persone circa, di cui solo 11 nella prima fila. L’esclusività dell’evento è palpabile. A venti minuti dall’inizio del concerto due cameraman si posizionano nel ristretto spazio del sottopalco (durante il concerto se ne aggiungeranno altri due ai lati). Anche la regista del film, Jane Pollard, macchina fotografica in mano, si mimetizza tra il pubblico ed è disponibile a fornire qualche delucidazione sul film: la serata, spiega, è stata organizzata per filmare lo scambio di energia tra i Bad Seeds e il pubblico. Come risaputo, Nick Cave è un frontman viscerale che non teme il contatto fisico con i fans. Unica nota negativa è l’eccessiva luminosità della sala, dovuta alle necessità filmiche. Alle 20.15 i sei Bad Seeds e il nostro salgono sul palco. Questa sera Nick, elegante come al solito, indossa un completo nero con camicia dorata. Partono le note di “We No Who U R” e la catarsi ha inizio. Si tratterà di un concerto ridotto (15 canzoni in tutto) rispetto alle altre date del tour, ma di un’intensità imparagonabile. Chicca dello show il duetto con Kylie Minogue su “Where The Wild Roses Grow”(eseguita per la prima volta dal 1998). Il resto della setlist è costituito, in buona parte, da canzoni tirate che gli permettono di esprimersi in tutta la sua fisicità stringendo continuamente le mani delle prime file, fissandole dritto negli occhi. Da ricordare in particolare il finale di “Higgs Boson Blues” quando, inginocchiato, prende la mano di una ragazza, l’appoggia al cuore e le sussurra: “Can you fell my heart beat?”. Solo due le ballate al pianoforte: “Into my arms” e “Watching Alice”, poi classici come “Tupelo”, “From Her to Eternity”, “Red Right Hand”, “Stagger Lee”, tanto per citarne alcuni, e la nuova, stupenda, “Jubilee Street”. Gran finale con “Deanna” e il pubblico in estasi: non rimane che attendere il film, sarà ben di più che un divertimento.

Give us a kiss

Il poeta maledetto Nick Cave, attualmente in giro per l’Europa a supporto dell’ultima produzione Push the sky away, sta chiudendo gli ultimi concerti con una canzone inedita dal titolo Give Us a Kiss. Ricorda, a mio avviso, un misto tra Neil Young e Radiohead (nei momenti in cui Thom York si cimenta in ballate al piano) riarrangiati in pieno stile Bad Seeds.
Childhood days in a simmer haze
GIVE US A KISS
In the blue you whisper into the music
And the feel underneath the foam bush
GIVE US A KISS
Hold me over, passing down
Pass the blood factory and the town
Come on, GIVE US A KISS
One that will sip, sip, sip
Before you slip, slip, slip away
Yeah, I’m still hanging out in your blue tunes
In your sizzling shoes in my dreams
GIVE US A KISS
One little sip, sip, sip
Before I catch, catch, catch
I’ll find, I’ll be a good girl
And it burns
Kiss
You want me to burn away
You want me to burn away
You want me to burn away
If you want me to burn away

Buon ascolto !

http://www.youtube.com/watch?v=aQKg3J-7OT4

Sound is like light (Lou Reed’s last interview)

Thank you Lou, you have been a true inspiration.
Marco

https://www.youtube.com/watch?v=4giZwTxmeP4#t=97

Jack White, Give your blood (HMV Forum London, 23 aprile 2012)

Comincio subito col dirvi che quello che state per leggere è il resoconto di una di quelle pazzie che si fanno poche volte nella vita e per pochissimi artisti.

Probabilmente già sapete del nuovo corso artistico del camaleontico Jack White. A poco più di un anno dallo scioglimento ufficiale dei White Stripes, ha appena pubblicato un album solista dal titolo Blunderbuss annunciando un tour mondiale con inizio a maggio. Fin qui niente di anomalo se non fosse per l’aggiunta a sorpresa (con una settimana di anticipo..) di due intimate shows in concomitanza con la pubblicazione dell’album. Parigi e Londra le città prescelte.. La tentazione è troppo forte, aspetto da anni  questo momento e non voglio farmelo scappare: mi procuro un biglietto per l’HMV Forum di Londra, situato nel rione di Camdem, prenoto un volo e una camera in ostello. Tre giorni dopo, da solo e zaino in spalla, parto per Londra.

Mezza giornata per ambientarmi, una bella dormita ed è ora di avviarsi sul luogo dello spettacolo. I manifesti annunciano il fin troppo prevedibile SOLD OUT, il cielo è plumbeo e scende una classica pioggerellina inglese, gelida. Una colazione a eggs e bacon, qualche caffè, un pò di ottima letteratura (il vagabondo delle stelle di Jack London -!!-) mentre si avvicina l’ora fatidica. Alle 16 mi unisco a un manipolo di fans motivati, di tutte le età ed esclusivamente inglesi (che sia stato l’unico ad aver organizzato un viaggio simile ?) Discutiamo sul nuovo disco e sul fatto che la setlist sarà composta da canzoni tratte da tutta la sua discografia, da quelle scritte per i White Stripes a brani dei Raconteurs e Dead Weather, e sul fatto che si faccia accompagnare in tour da due band distinte, una di soli uomini e una di sole donne scegliendo la mattina del concerto con chi suonare.. Una trovata inusuale e geniale.

Alle 18 ci consegnano i braccialetti, niente biglietti classici, probabilmente per scongiurare i soliti affari dei bagarini. Ancora un pò d’attesa e le porte vengono aperte! Davvero una bella location, molto più piccola dei locali in cui suonerà nel tour ufficiale. La capienza, tra posti in piedi e balconata, è di circa 2000 persone. Il palco è piuttosto basso e vicino alla transenna. Qualche bar, un piccolo guardaroba e il banchetto del merchandise in cui vendono l’album in vinile, magliette con la sigla III (da Jack White III) qualche gadget e il poster ufficiale della serata che recita: Jack White, give your blood ! Birra in mano, posto il seconda fila, la tensione sale.

Alle 20 e 30 è il turno del gruppo spalla, le inglesi Smoke Fairies, una delle numerose band emergenti prodotte da Jack con la sua casa discografica indipendente, la Third man Records. Non male per scaldare ulteriormente gli animi ma niente in confronto a quello che ci aspetta.

Sono le 21.20, quattro tecnici di fiducia in cappello, completo e cravatta azzurra lavorano con perizia alla preparazione del palco liberando i vari strumenti dalle lenzuola bianche che li ricoprono lasciando per ultima la batteria, unico indizio per capire quale band lo accompagnerà. Saltano subito all’occhio le valvole retrò degli amplificatori, come immaginavo l’amplificazione è esclusivamente analogica !

21.45, le luci si spengono, la batteria viene scoperta, sarà la band di sole donne ad accompagnarlo. Entrano sei bellissime in abito da sera azzurro. La lunga attesa è finita: ecco Jack White, vestito sobrio in jeans e maglia nera come a dire: “Pochi fronzoli, siamo qui al servizio della musica!” imbraccia una chitarra azzurra e… BAM ! L’intro di Dead Leaves and The dirty ground, classico dei White Stripes, rimbomba come un missile e io perdo il controllo.

Sul palco straborda energia femminile all’ennesima potenza. La batterista, Carla Azar, sistemata a lato, ci dà dentro senza esclusione di colpi e non fa rimpiangere una certa Meg White. Contrabbasso, pedal steel, violino. Ai cori e cembalo la cantante di colore Ruby Amanfu e al piano e alle tastiere la rossa Brooke Waggoner. Fanno tutte la loro parte alla grande mentre Jack se la ride dandoci dentro con una grinta da frontman d’altri tempi. Le nuove canzoni, già grintose sul disco, nella resa live decollano all’ennesima potenza. La stessa “Love Interruption” con la strumentazione al completo raggiunge picchi più alti rispetto allo scarno arrangiamento da studio.  La scaletta è ben calibrata e, come già annunciato, comprende, oltre alle nuove, canzoni tratte da tutta la sua discografia saggiamente riarrangiate, se non addirittura migliorate. Lo si capisce sin dalla quarta canzone Top Yourself originariamente registrata nel secondo disco coi Raconteurs, qui dilatata e supportata da un lungo fraseggio con la violinista. Per non parlare di Hotel Yorba, I\’m Slowly turning into you o  We are going to be friends, registrate con i White Stripes ma eseguite al massimo delle possibilità grazie al contributo di non due, ma ben sette strumenti. C\’è anche posto per Two Against One, contributo di Jack all’album Rome di Daniele Luppi e Danger Mouse, dalla resa quasi psichedelica. Il primo set si conclude con una delle mie preferite: Ball and Biscuit (White stripes) tratta dal millon seller Elephant, quasi dieci minuti di chitarra incendiaria, da perdere i sensi ! L’encore si apre con il pezzo più potente di Blunderbuss: Sixsteen Saltines, le pile sono ancora cariche! C’è tempo per My Dorbell, l’inaspettata Carolina Drama (The Raconteurs) con tanto di assolo vocale della cantante Ruby Amanfu che ricorda i Pink Floyd di The Great Gig In The Sky e l’immancabile Seven Nation Army con pubblico in estasi a ripeterne il riff, abusato ma decisamente efficace (almeno sono in inghilterra e non in Italia..) C’è ancora tempo per Goodnight Irene, standard scritto nel 1933 dal bluesman Huddie ‘Lead Belly’ Leadbetter. Passato remoto, presente e futuro si fondono in un tutt’uno. Un’esperienza da raccontare ai nipoti.



dEUS (dicembre 2011)

Voglio parlarvi di una band che probabilmente non conoscete, si chiama dEUS, viene dal Belgio.

Ha già sei dischi all’attivo, il primo Worst Case Scenario risale al 1994, l’ultimo Keep you close è fresco di stampa.
Dire che non li conosco da molto è un po’ un eufemismo.. Ho cominciato ad ascoltarli seriamente circa una settimana fa dopo aver visto un video che pubblicizzava un loro concerto a Lubiana il prossimo 1 marzo. C’era qualcosa nella loro sonorità che mi intrigava. Quel qualcosa, quella magia celata che solo i grandi artisti sanno esprimere. Mi hanno rapito totalmente dopo pochi ascolti. Il sette dicembre non ho resistito, ho preso un treno per Bologna. Quello che segue è un resoconto di quella serata all’Estragon.

Difficile recensire il concerto di un gruppo con una discografia tanto variegata. Sei dischi composti in due distinte fasi creative, la prima finisce col terzo disco The Ideal Crash datato 1999 e la seconda inizia nel 2005 con Pocket Revolution e un cambio quasi integrale di formazione. Restano solo Tom Barman (frontman e mente del gruppo) e il polistrumentista Klaas Janzoons, ora affiancati da Alan Gevaert al basso, Mauro Pawlowski alla chitarra e Stephane Misseghers alla batteria.
Un cambio che ha portato anche nuove sonorità; da una sorta di ostico rock sperimentale in veste grunge degli esordi a qualcosa di più orecchiabile, ma comunque ben fatto, tra cui una hit indie. Ciò è molto importante da notare se si vuole fare un’analisi sulla tipologia del pubblico presente.

Noto infatti una divisone netta tra c
hi è affamato di Musica (specie sempre più rara) e un nutrito manipolo di modaioli, soprattutto ragazzine, il unico diletto è urlare su un paio di hit per poi, nel migliore dei casi allontarsi o, cosa nettamente peggiore, rendersi alquanto fastidiosi e distratti in momenti più significativi.
Nonostante ciò, come si suol dire, il gioco ha valso la candela. Tom Barman è in forma smagliante, i compagni gli tengono testa alla grande, si percepisce una forte e genuina passione e voglia di suonare e far divertire. Due ore di grande musica per tutti i gusti, particolarmente entusiasmante la sequenza Sister Dew-Little Arithmetics-Bad Timing per non parlare di una Suds and Soda devastante e un’inaspettata Hotellounge in chiusura, tratte entrambe dal disco d’esordio (indovinate quale parte di pubblico godeva di più in quel momento..).
Chiaramente il primo marzo prossimo sarò a Lubiana.

Il rock è morto ? Non direi. Se lo pensate probabilmente il vostro romanzo è già finito e, parafrasando Kurt Vonnegut, siete già all’epilogo.

Un weekend londinese.. (ricordi di una gita musicale del 2011)

Sono di ritorno da una trasferta lampo in quel di Londra per un po’ di sano turismo musicale. Gli artisti visti questa volta, entrambi per la prima volta in carriera, sono senz’altro tra le migliori e più genuine realtà rock contemporanee.
Wilco/Pj Harvey visti in due giorni consecutivi il 29 e 30 ottobre. Andiamo con ordine.
Per chi non li conoscesse i Wilco sono un gruppo americano di Chicago, cappeggiato da Jeff Tweedy, formatosi ben 17 anni fa. Osannati in patria, semisconosciuti in Europa, hanno avuto la consacrazione artistica nel 2004 con l’entrata in scena del raffinato chitarrista-polistrumentista jazz/rock Nels Cline. E’ dello scorso 27 settembre la pubblicazione del loro ultimo album, nono in carriera, The Whole Love. A Londra hanno suonato al Round House, storico locale (ex gasometro) a Chalk Farm nel rione di Camdem. One Sunday Morning, ballata di 12 (!!) minuti, da il via a una serata di alto livello tra sonorità soft e rumore bianco, tipica mescolanza (a volte spiazzante) della loro musica mai banale. La scaletta ha compreso numerosi pezzi dell’ultimo lavoro oltre a  svariati classici come Via Chicago, Poor Places e Impossible Germany (in cui Nels Cline esegue uno dei migliori assolo che le mie giovani orecchie abbiano mai udito). Un’ora e tre quarti che mi ha lasciato davvero estasiato e assolutamente voglioso di rivederli il prossimo marzo quando torneranno in Europa; Milano, Bologna e Zagabria le tappe più vicine.


 



PJ Harvey ha invece tenuto i suoi ultimi due concerti dell’anno, ma primi in carriera
(scusate il gioco di parole) alla Royal Albert Hall, storica sala da concerti situata nell’elegante rione di South Kesington. Una location così prestigiosa è forse dovuta alla sua recente vittoria, per la seconda volta in carriera, del Mercury Prize (premio al miglior artista inglese dell’anno) a seguito dell’ultima prova discografica Let England Shake.
Si presenta alle 20 e un quarto in una sala gremita. Veste un abito nero in stile vittoriano cucito su misura. I fidi compagni Mick Harvey, John Parish (intercambiabili tra basso, chitarra, tastiere e organo) e Jean-Mark Butty alla batteria attaccano l’intro di Let England Shake, canzone d’apertura dell’ultimo album. Comincia un viaggio di quasi due ore in un Inghilterra d’altri tempi.
Lo show si concentra per lo più sull’ultima produzione, disco in qualche modo politico dalle forti tematiche antimilitariste, e sulle canzoni del penultimo White Chalk, album spettrale che ben si amalgama con l’atmosfera OldEngland della serata. Anche vecchi classici come Down By The Water, C’mon Billy o Angelene vengono ridimensionati per dare una dinamica più omogenea allo spettacolo.
Voce da usignolo, autoharp stretta al petto come un nuovo nato e una forte presenza scenica del tutto priva di movenze e anzi distanziata sia dal pubblico che dalla band (la sua postazione è infatti situata all’estremità sinistra del palco).
Poco fumo ma molta, moltissima sostanza. Una performance così volutamente statica che ci ho messo qualche giorno ad assimilarla e a carpirne a pieno l’intensità.
Due ore, come detto, di pura magia, fine primo set con The Colour of the Earth, breve pausa e di nuovo in scena per qualche bis, dalla bellissima The Desperate Kingdom of Love da sola chitarra e voce, passando per White Chalk, The Sky Lit Up, Angelene e  Silence.  Finiscono di risuonare le ultime note. La vera regina è tra noi.
Un weekend da incorniciare !

 

Thank you White Stripes & Madrugada! (un vecchio articolo datato marzo 2011 che scrissi in occasione dello scioglimento dei White Stripes)


ll due febbraio scorso Jack e Meg White hanno ufficializzato lo scioglimento dei White Stripes adducendo come motivo il desiderio di preservare la musica fin’ora composta, non volendo cioè diventare cloni di sé stessi o schiavi delle logiche commerciali imperanti. 
I due non suonano insieme dal vivo da quasi quattro anni, da quel tour di Icky Thump, nel sempre più lontano 2007, in cui dovettero sospendere numerose date per motivi di salute di Meg. Alcuni (un giornalista de La Repubblica incluso) li ricordano come “‎Il duo del Po-Popopo-Po". Beh, vi assicuro, non poco sgomento, che valgono molto più di banali associazioni alla “Campioni del mondo”. Non offendetevi se mi permetto di dire che si è trattato della miglior band dell’ultima decade, la prima di questo millennio a cercare di dare una scossa al music business. Non sto dicendo che abbiano inventato alcunchè di nuovo (senza i vecchi bluesman del Missisippi e l’hard blues dei Led Zeppelin non credo avrebbero fatto molta strada) hanno tuttavia dato il via a una nuova attitudine nel fare musica. In formazione minimale; chitarra/voce/batteria. Scenografia e abiti a strisce rosse e bianche. Fratelli ? Amici ? Hanno giocato a lungo su questa ambiguità. Solo dopo qualche anno dichiarano di essere stati sposati. Jack White, al secolo John Anthony Gillis, ha deciso dunque di adottare il nome della moglie. Dal vivo.. dinamite pura. Lo stile batteristico “dada” assolutamente non virtuosistico ma indispensabile di Meg ricorda da vicino quello di Moe Tucker dei Velvet Underground. Jack dirige con disinvoltura le dinamiche con spiccata padronanza dello strumento e una voce unica. Sei dischi all’attivo, White Blood Cell, con quell’intro gracchiante di Dead lives and the dirty ground, il mio preferito. Rimpiango di non averli visti dal vivo a Lubiana sei anni fa. La vita, si sa, non offre quasi mai una seconda chance, mai perdere il treno. Jack, sono sicuro, continuerà a stupirci come ha fatto negli ultimi anni con lo stile che lo contraddistingue. Vedi Raconteurs (visti a Ferrara qualche tempo fa) e Dead Weather (da batterista!). Grazie Jack. Grazie Meg.
 




Pochi giorni prima di questa triste notizia ho (ri)scoperto quasi per sbaglio un gruppo di cui conoscevo ben poco. I Madrugada. Originari di Stokmarknes, cittadina situata nel nord della Norvegia, si formano nel 1995. Sivert Høyem alla voce, Frode  Jacobsen al basso, Robert Burås alla chitarra e Jon Lauvlend Patterson (sostituito da  Simen Vangen dopo il secondo disco) alla batteria. Debuttano quattro anni dopo con  l'acclamato Industrial Silence. Registrano in seguito altri quattro album in studio e uno dal vivo Live at Tralfamadore (mai letto Vonnegut ?).

Fino a pochi giorni fa conoscevo solo Grit, datato 2002 (vi consiglio l'ascolto di Blood shot adult commitment, canzone di apertura, non vi deluderà) bravi pensavo, ma nulla di sconvolgente. Sapevo anche  del loro scioglimento nel 2008 dovuto al tragico suicidio del chitarrista ma non mi ero spinto oltre.
Girando in internet scopro dell'uscita di una raccolta, (perchè no?) me la procuro.
Ancora un po' scettico ma curioso di saperne di più metto sullo stereo il disco "due" (non chiedetemi perchè abbia cominciato dalla fine) e BAM! Un' illuminazione. Mi lascio cullare dalla voce bassa di Silvert Høyem, a metà strada tra Nick Cave e Mark Lanegan. Ottime melodie. Produzione ben ponderata. What's on your mind, Vocal, Majesty.. Una più bella dell’altra. Molto bene. Ormai irrimediabilmente rapito decido di approfondire. Scopro che in madrepatria sono considerati  la “Miglior rock band norvegese di sempre” e hanno basi di fans in giro per l'Europa e l'America, qui da noi sono un fenomeno di nicchia per pochi appassionati e intenditori. Sebbene piccolo, spero, con queste poche parole di dare un contributo alla diffusione della loro musica. Che altro dire.. Mi sarebbe piaciuto vedere anche loro dal vivo.. Peccato che anche in questo caso sia arrivato troppo tardi..
A Robert Burås, ovunque tu sia.

P.S. La buona notizia è che Sivert Høyem, cantante del gruppo, ha pubblicato nel 2009 un album da solista dal titolo Moon Landing e sembra stia lavorando a nuove canzoni, vedremo un po’ che succede..  Un tour ?