Dopo
lunghi giorni di pioggia, il cielo di Trieste, questa sera, è
stellato. La luna splende e soffia una leggera brezza. Nulla accade
per caso. Il teatro Miela, infatti, si trasformerà, per un paio
d'ore, nella piazza di Agadez, città del Niger, luogo d'origine
del giovane Omara Moctar, in arte Bombino. Stiamo per intraprendere
una carovana desertica, cullati da un ritmo ipnotico sferzato da una
chitarra nomade.
La
collaborazione con Dan Auberbach, frontman dei Black Keys e
produttore dell'album "Nomad", l'hanno proiettato all'attenzione
di un pubblico internazionale.
L'atmosfera
è vibrante, il teatro gremito da un pubblico eterogeneo di tutte le
età. Sono le 21 e 45, è tempo di dare inizio alle danze. Entra
Bombino, vestito di verde; calza delle infradito ed è cinto
dall'immancabile tagelmust, il lungo velo bianco tipico della sua
cultura. Imbraccia una chitarra acustica e inizia a cullarci con i
suoi lunghi mantra su due accordi.
È
accompagnato da basso e percussioni; una sezione ritmica tribale da
cui è impossibile non farsi catturare.
La
prima parte è una sorta di trascinante “Unplugged Tuareg Blues”,
gli animi cominciano a scaldarsi.
Si
sentono la sabbia, l'acqua, i cieli sterminati. Si sente la ricerca
di libertà e lo spirito di ribellione. Ribellione verso un governo
opprimente e violento che, nell'epoca in cui Moctar cominciò a
suonare, mise la chitarra tuareg fuori legge. È difficile, per noi
occidentali, capire cosa significhi suonare per ribellarsi al
sistema. Sembra addirittura che due suoi compagni siano stati
giustiziati dall'esercito proprio per questo motivo. Se si è
disposti a seguirlo, Bombino ti fa capire esattamente di cosa si
tratta. In un epoca in cui i gusti sono dettati esclusivamente dal
mercato, sonorità e personaggi così autentici ti fanno rimettere in
contatto con un amore viscerale, con l'origine per una passione
cristallina, per la musica e per la libertà.
È
quando imbraccia la sua Fender che la serata prende veramente quota.
Lunghe jam trascinanti con continui cambi di ritmo. Si passa dal
Desert Blues, al Reggae, fino a punte Rock. Un manipolo di spettatori
sul lato sinistro da l'avvio ad un sabba inarrestabile su un ritmo
ipnotico, da seguire ad occhi chiusi mentre la band ci da dentro alla
grande, colpita da tanta positiva accoglienza.
In
quattro sul palco: bassista a sinistra, chitarra ritmica a destra e
batterista sul fondo.
Non
sono riuscito a riconoscere molte canzoni, forse tre o quattro, il
cui Intro è particolarmente orecchiabile. Molti i pezzi tratti da
“Agadez”, disco del 2011 che l'ha fatto uscire dai confini del
Sahara.
Tratti
da “Nomad” ricordo una strepitosa “Her Tenere” (In The
Desert) e un'inarrestabile “Imuhar” (Freeman) inno all'unione del
suo popolo nomade, contro le avversità del presente.
Leggendo
la traduzione dei suoi testi (cantati in tuareg) si capiscono i
retroscena di una cultura da sempre affascinante. Bisogni puri,
scevri dalla retorica consumista occidentale. Si parla di amicizia,
acqua, pazienza, amore, dubbio. Il tutto su un onnipresente sfondo
desertico di cui non si vede la fine.
In
tanti concerti visti, poche volte mi sono imbattuto in artisti di
un'umiltà tanto genuina. Continui i ringraziamenti in francese sotto
un timido sorriso soddisfatto.
A
fine concerto si concede al pubblico per fotografie e autografi,
mentre mi dedica una copia di “Nomad”, mi colpisce con la frase "Grande famille, Grande famille !"
come a dire che per lui siamo tutti una grande famiglia.
Un esempio di umanità e un artista immenso, speriamo che l'attenzione mainstream non inquini il suo animo nomade.